E’ un nuovo genocidio.
Dopo Stalingrado e Sarajevo nel ‘900, Aleppo è la tragedia oltre che di un assedio medievale, di un esodo quasi forzato di civili, di una guerriglia urbana fatta di una inarrestabile catena di attentati e rappresaglie; oltre a questo Aleppo è la tragedia di un suicidio politico avallato dall’indifferenza della comunità internazionale.
Basta scorrere qualche libro di storia, o sfogliare qualche pagina della Bibbia, per capire cosa sia stata la Siria: la terra di conversione di San Paolo in antichità e, nei secoli, una società capace di far convivere, in particolar e ad Aleppo la capitale economica del Paese, religioni e culture diverse in un intreccio di lingue e tradizioni cresciute accanto nel segno della tolleranza.
Questo ci raccontano di Aleppo gli aleppini stessi: una città dove interi quartieri cristiani, nutriti dal rito siriaco e da antiche quanto splendide liturgie orientali, hanno conservato sino ad oggi comunità vive quanto ricche di vita e cultura. In particolare nel complesso monastico di Maalula, su una collina alle porte di Damasco, si parla quella reliquia vivente che è l’aramaico. Ebbene, di tutto questo una guerra civile animata da una cieca forza distruttrice, ha devastato la Siria e da quattro anni Aleppo.
Un confronto fra fazioni di cui, la semplice vulgata che ci sia un potere forte, magari illiberale ma che garantisce l’ordine, contro un terrorismo jihadista è una semplificazione foriera di nuova violenza.
Il confronto è piuttosto fra l’eredità, complessa e avvelenata dal cancro del Daesh, delle primavere arabe e un governo che, secondo Amnesty international dal 2011 a oggi, ha attestato la morte di oltre 17mila persone nelle carceri del regime. “Mafquodoun”, i “perduti”, “desaparicidos” siriani che sono il simbolo di una repressione che perdura da almeno 4 decenni sotto la dittatura di Hafez e Bashar Assad.
Queste vittime non possono certo far impallidire il ricordo delle altre vittime, quelle degli attacchi di matrice jihadista su Aleppo ovest, dell’assedio di interi quartieri lasciati sistematicamente senza acqua da squadroni jihadisti impadronitosi della stanza dei bottoni dell’acquedotto, e il rapimento di 5 religiosi, fra cui due vescovi metropoliti di Aleppo, il siro ortodosso Gregorios Yohanna Ibrahim e il siro ortodosso Boulos Yazigi. Tutto questo non può far dimenticare i 5 milioni di profughi e i 7 milioni di sfollati interni in un Paese con 23 milioni di abitanti e una economia semi-azzerata dal conflitto. Una guerra civile che è diventata ben presto una guerra per procura dove Aleppo, come Raqqa – la “capitale” siriana del Daesh – e l’irachena Mosul fanno del Siraq il giardino del Medio Oriente dove potenze regionali e mondiali giocano una spietata quanto disumana partita.
Tutto questo, come denunciato più volte dal segretario generale uscente dell’Onu, Ban Ki-moon, facendo carne di cannone del diritto umanitario da parte dei jidisti dell’Isis ma anche dell’esercito siriano e dell’alleato russo.
Il sollievo espresso da alcuni vescovi siriani per un Natale più sereno ad Aleppo non può far dimenticare, come affermato da Francesco nel dopo Angelus di due domenica fa che “la Siria è un Paese pieno di storia, di cultura, di fede. Non possiamo accettare che questo sia negato dalla guerra che è un cumulo di soprusi e di falsità”.
La nascita di Cristo, principe della pace, risveglia le nostre coscienze e affatichi le intelligenze migliori per cercare di fermare l’inutile strage del nostro presente.
Luca Geronico( Azione Cattolica ambrosiana)